Ma davvero i valori della destra sono obsoleti? (di D. Cofrancesco) - HuffPost Italia

2022-07-23 01:53:40 By : Mr. Gang Qian

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La Cina contemporanea, che l’illuminante saggio di Federico Rampini, Fermare Pechino, (Mondadori 2021) descrive in maniera esemplare, è sicuramente uno dei più grandi e potenti imperi della storia, avviato a ridiventare il centro del mondo come nei secoli in cui non era rosso ma celeste. Non ha (ancora?) vinto la competizione per il dominio planetario con gli Stati Uniti ma certo è un rivale non meno pericoloso dell’URSS al tempo della guerra fredda. Un miliardo e 400 milioni di cinesi si contrappongono ai circa 330 milioni di nordamericani che salgono a 368 con i canadesi ma al di là dei numeri –che pure sono una forza: il ‘duce’ non aveva tutti i torti—ci sono fattori che fanno riflettere non poco. E che gettano un’ombra di inquietudine sul confronto Cina/Usa.

Come scrive Rampini: «Il presidente degli Stati Uniti ha due buone ragioni per ‘invidiare’ il suo omologo cinese, anche se non potrà mai ammetterlo apertamente. La prima è la durata. Xi lanciò il suo progetto di «primato mondiale nelle tecnologie avan­zate» quando arrivò al vertice nel 2012. È ancora al potere dieci anni dopo. L'altra ragione dell'invidia è perfino più sostanziale. Xi usa il nazionalismo come collante, ideolo­gico per spronare i cinesi alla coesione. Una maggioranza dei suoi cittadini lo approva e lo segue su quel terreno, so­prattutto nel ceppo etnico maggioritario degli Han. Biden governa una nazione lacerata. Quasi mezza America (re­pubblicana) lo considera un usurpatore. Nell'altra metà (la sua) c'è chi pensa che l'America sia segnata “geneticamen­te” da razzismo, sessismo, discriminazioni contro le mino­ranze, un Dna imperialista. Nell'incontro di pugilato tra i due sistemi è Biden ad avere un braccio legato dietro la schiena, perché la sua famiglia politica è in preda a un fu­rore iconoclasta: la sinistra-establishment che comanda nei campus universitari, nelle redazioni dei giornali, nei board delle multinazionali ha deciso che l'Occidente ha solo orri­de statue da abbattere».

Se si riflette alle strategie che hanno permesso alla Cina di diventare la società con la tecnologia più avanzata, di risolvere il problema  dell’alimentazione di ottocento milioni di individui alle prese col dramma storico della sopravvivenza, di rimontare il gap culturale con l’Occidente, di riacquistare la padronanza assoluta sul proprio territorio, di scrollarsi di dosso l’umiliante passato coloniale (un conoscente genovese che era stato in Cina nell’immediato dopoguerra racconta che a Pechino gli capitò di salire su un tram e di assistere stupito alla discesa di tutti i viaggiatori: gli spiegarono che un bianco aveva il privilegio di non dover avere alcun contatto con i ‘gialli’ sicché questi erano obbligati a rispettarlo), è difficile non ammettere che ci si trova di fronte ai valori della ‘destra eterna’: l’ordine pubblico, l’obbedienza alle autorità costituite, la disciplina, la meritocrazia, uno Stato forte e dotato di robusti apparati repressivi, il senso della tradizione e, soprattutto, l’identificazione orgogliosa in una comunità politica (in Europa, la nazione) ben più importante della stessa ideologia comunista (molto ridimensionata dalle riforme di Deng Xiaoping (m.1997).

Certo non si tratta della destra liberale e conservatrice di Edmund Burke—peraltro molto studiato in Cina come ebbe a dire a un incredulo docente italiano in visita il Rettore dell’Università di Pechino, quando Mao (m. nel 1976) era ancora vivo. Ricordiamo tutti Tienanmen e le recenti rivolte democratiche di Hong Kong represse in violazione di accordi che garantivano all’ex colonia britan-nica uno status politico (democratico) a parte. Non essendo marxista né anarcocapitalista, non credo che i fattori  economici—il crescente benessere, anche se non equamente diffuso, l’aumento della produttività, la capacità di competere col resto del mondo in prodotti industriali, finanziari, telematici etc.— finiranno per cambiare la costituzione formale e materiale cinese e che il PCC si scioglierà, tra qualche decennio, come neve al sole sulle orme del PCUS dell’era Gorbačëv.

Sembra che i governanti di Pechino, anzi, abbiano trovato il sistema per potenziare il ‘modo di produzione capitalistico’ imbrigliandolo nelle reti di un ferreo statalismo:  col risultato di associare alle virtù del mercato quelle del dirigismo politico—l’opposto di quanto si è verificato in Italia dove ai mali ingenerati da un  mercato senza controllo si sono assommati i mali di uno Stato sempre più costoso e inefficiente. «La Cina, scrive ancora Rampini, sta conquistando un vantaggio sugli Stati Uniti perché il suo modello di ‘capitalismo politico’, con al centro una regia di Stato, promuove dei campioni nazionali in ogni tecnologia avanzata. Nel sistema cinese tutte le energie e le risorse pubbliche e private convergono verso una finalità comune». Qualcosa, insomma, che sarebbe piaciuto a Enrico Corradini, l’ideologo più estroso del nazionalismo italiano o ad Alfredo Rocco, il nostro Carl Schmitt, entrambi artefici -et pour cause!- della separazione tra nazionalisti liberisti e nazionalisti protezionisti.

Non sto sostenendo che la Cina incarna un modello politico di destra: non sono venuti meno la sua tensione universalistica e lo sguardo rivolto al futuro verso “le magnifiche sorti e progressive”. L’illuminismo cinese è qualcosa che si traduce nel primato quasi assoluto della scienza e della tecnica, i valori più alti e più apprezzati: chi non ne è in possesso  si pone al di fuori della storia, è un paria del genere umano. E tuttavia l’odierno, ben più reale, ‘grande balzo in avanti’ poggia i piedi su un «nuovo nazionalismo cinese» che« non è solo un’operazione voluta dall’alto ma ha una base di consenso di massa». Xi Jinping «ai suoi Millenial, tra esercitazioni militari e studio a oltranza» propone «una storia della Cina che, a differenza dell’America, non ha peccati originali da espiare».

Insomma una potenza non più emergente ma ormai ampiamente emersa pone la sua candidatura all’egemonia mondiale avvalendosi di risorse di legittimità politica che siamo usi a considerare di destra. E i suoi rivali—gli Stati Uniti e l’ Europa, ma questa con diversi punti interrogativi—come reagiscono, a quali idealità si richiamano, su quali atouts  in fatto di coesione sociale, di valori politici condivisi, di senso di appartenenza possono contare? Società in cui esistono solo gli individui con i loro diritti sono in grado di  affrontare un conflitto internazionale che, anche se non degenera in uno scontro armato --che il possesso del nucleare renderebbe distruttivo per il pianeta--, richiede sacrifici, attaccamento alla comunità politica, disponibilità ad affrontare sacrifici e privazioni.

Scrive Rampini degli Stati Uniti «Una nuova generazione viene educata a esecrare il proprio paese considerandolo un inferno di razzismo e discriminazione. Anche nella società civile, nei mezzi d’informazione, tra gli intellettuali e tra i giovani, tanti pensano che i “valori dell’Oc-cidente” siano un’espressione ipocrita, un mito da sfatare, un’impostura da smascherare». Nel nostro paese l’onda lunga del 68 ha raso al suolo i valori della ‘profonda provincia’ italiana e, in seguito, il crollo dell’Unione Sovietica e il sempre più avanzato processo di secolarizzazione con le chiese deserte e i seminari semivuoti sembrano aver minato irreparabilmente le fondamenta su cui si reggono le comunità politiche: i ‘valori forti’ a sostegno di progetti politici di conservazione o di innovazione.

La grandezza dell’Occidente -l’ho scritto tante volte- stava nell’equilibrio tra Tradizione e Ragione, tra Stato e Individuo, tra Comunità e Società, tra Destra e Sinistra, tra Romanticismo e Illumi-nismo. Venuto meno il primo termine del binomio -ed è questo il punto cruciale- anche l’altro, che avrebbe dovuto beneficiarne e avere la scena tutta per sé, è entrato in crisi. L’uomo è un animale spiritualmente anfibio: può amare l’oceano sconfinato dell’avventura verso l’ignoto che lo libera dalle servitù delle determinazioni storiche e ambientali ma ha bisogno anche della terra che lo limita, lo identifica, lo racchiude nelle frontiere segnate da monti, fiumi, laghi. Del resto, anche esteticamente, in fondo, le acque sono affascinanti quando lambiscono le terre e le terre sono più belle quando si affacciano sulle acque. Ritenere che le istituzioni politiche e le norme della convivenza sociale possano fondarsi sul binomio Ragione/Individui e che tutto ciò che limita i diritti di questi ultimi si iscriva in una logica autoritaria tipica della destra significa aver perso la grande partita del nostro tempo.

Se la destra, almeno nella sua versione più rispettabile, si identifica con il tipo ideale del conservatore, delineato da Ernesto Galli della Loggia nell’articolo Non sempre ha senso cambiare (‘Corriere della Sera’ del 16 novembre u.s.) ovvero con la convinzione «che in generale non convenga disprezzare la tradizione e tutto ciò che vi si riferisce. Che il senso comune, la morale corrente, le idee ricevute, vanno trattate con riguardo, non sono spazzatura. Che dunque esistono gli uomini e le donne, ad esempio; » anche se non va impedito  «a chiunque di sentirsi l’uno  o l’altra o, se proprio si vuole, entrambi e di comportarsi di conseguenza. Purché ciò beninteso non venga usato per minare l’idea che esista quella cosa che si chiama natura o per sbizzarrirsi nel fondare qualche nuovo concetto di normalità», se la destra -come ‘categoria dello spirito’, per usare una terminologia idealistica- è tutto questo, cancellare le tradizioni, il passato, i suoi simboli storici non comporta il confinamento del pensiero conservatore nelle cantine della storia (se non nelle fogne), ma solo il rischio di vederlo riemergere in fogge barbariche e deciso, come la cultura di sinistra oggi vincente, a non venire a patti con il secolare avversario ideologico.

Chiedersi se ci sono ancora valori di destra la cui perdita sarebbe esiziale anche per il fronte progressista non maschera un’operazione nostalgica ma il tentativo di salvare il salvabile della nostra civiltà, di impedire la ‘resa dei conti’ definitiva tra Progresso e Reazione, di  chiarire che   la dialettica che fa grandi i popoli (la vecchia Inghilterra  docet) non è tra Progresso e Reazione ma tra Progresso e Tradizione, dove l’una non è necessariamente la negazione dell’altra ma può esserne il supporto inconsapevole. In fondo questa è la lezione della Cina, quale si ricava dal gran libro di Federico Rampini.

Pechino può contare su una forte e coesa comunità nazionale (con risvolti razzistici, giacché l’etnia Han resta quella dominante) nella conquista del mondo. L’Occidente perderebbe l’anima se seguisse le sue orme in fatto di diritti civili e politici ma farebbe bene a ripensare il suo cosmopolitismo, il suo disprezzo delle radici, la sua ‘cultura del piagnisteo’, la sua passione per le guerre civili interminabili—contro il clericalismo ,ieri,  contro il fascismo e il sovranismo, oggi—la sua ossessione di contare i buoni e di separarli dai cattivi sulla lavagna del Weltgeist. E in questo ripensamento, ancora una volta, non può sottrarsi alla necessità di chiedersi   se, tra le rovine sotto cui è crollato ‘il mondo di ieri’, non ci siano archi e colonne che avrebbero potuto garantire la sicurezza della marcia dell’Umanità verso un avvenire migliore.

I filosofi del diritto cosmopoliti -che hanno dichiarato guerra alle identità, alle radici, alle frontiere, al concetto stesso di cittadinanza- non preparano il ‘mondo nuovo’ sognato dall’universalismo etico-politico illuministico -da Anarchasis.Cloots, da Condorcet, da Kant- ma indeboliscono il vecchio, disarmandolo dinanzi alle nuove sfide della storia.

Come scrive Samuel P. Huntington, in un saggio fondamentale per capire il nostro tempo del 2004, La nuova America. Le sfide della società multiculturale. (Ed.Garzanti, 2005): «L'identità dell'individuo e l'identità della nazione erano le­gate alla cittadinanza. |…| Alla fine del xx secolo, tuttavia, l'idea della cittadinanza nazionale venne pesantemente attaccata, i requisiti che andavano soddisfatti per ottenerla vennero allentati, e la distinzione tra i diritti e le responsabilità dei cittadini e dei non-cittadini si ridusse sen­sibilmente. Questi sviluppi hanno trovato legittimazione in base agli accordi internazionali e ai diritti universali dell'uo­mo, e alla tesi che la cittadinanza non sarebbe un prodotto della nazione ma una condizione intrinseca dell'individuo».

Con il progressivo indebolimento del «l'ordine nazionale della citta­dinanza» le destre hanno perso la partita. In Occidente non in altre parti del mondo.

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