I 10 migliori brani dei Genesis di Peter Gabriel che spiazzano (gli avversari del fantasy rock) - Articoli - SENTIREASCOLTARE

2022-09-03 02:01:50 By : Ms. xiaoli lin

Uno dei luoghi comuni che colpiscono il prog rock sotto la cintola è l’accusa di avere messo radici nel fantasy per farne un unico terreno di battuta. Pare che sia tutto folletti, gnomi, creature fatate, re e damigelle in pericolo, unicorni e draghi, mondi di immaginazione frivola e niente altro. Hanno contribuito soprattutto gli Yes con le copertine di Roger Dean, e con il loro tastierista Rick Wakeman che si esibiva con mantelli e cappelli da mago Merlino; ma in tanti hanno frequentato senza risparmiarsi, soprattutto band di seconda fascia. Molti altri, però, hanno espresso vedute più ampie e fertilizzato il loro humus sonoro con temi quanto mai terreni. Sporchi. Di sudore, sangue, lacrime. Toccando tematiche quotidiane, dell’uomo comune con i suoi travagli, o del sociale nell’accezione più “alta”, quella che piace alla critica con la puzza sotto al naso o al contrario barricadera. Non solo omini verdi, insomma.

Ma come sempre accade in questi casi, quelli delle critiche tese a fare pulizia di genere (musicale) senza troppo sottilizzare, la crociata anti-prog è cavalcata da chi ha meno autorevolezza per stroncarla: ovvio che chi stima il punk o va in brodo di giuggiole per il country rock non ha né tempo né volontà da dedicare al resto dello spettro musicale che non lo rappresenta o lo appaga, benché il più fine stratega vi direbbe che il nemico si batte conoscendolo meglio del migliore degli amici. Legate un amante dei Ramones alla sedia e fate partire la musica prog: all’inizio del quarto minuto di un brano che mediamente si protrae dai 10 ai 20 minuti comincerà a sbriciolarsi come un vampiro al sole. È fisiologico, non ce la fanno: se sei abituato a sfogliare le riviste di gossip e ti mettono in mano Tolstoj crolli sotto un peso schiacciante. Non è questione né del numero di pagine (o di minuti) né di argomenti, ma di trama espressiva, sintattica e grammaticale.

I Genesis sono uno dei nomi capofila del prog rock, noti al pubblico più variegato per effetto delle diverse fasi che hanno vissuto. Ci soffermiamo sulla prima versione, quella prog senza se e senza ma, con Peter Gabriel nel ruolo di frontman e istrione dalle mille trovate. I Genesis del periodo 1969-1975 che coincide, neanche a farlo apposta, con gli anni d’oro del prog rock.

Complici anche per loro le copertine, soppesate in modo superficiale ed erroneo, i Genesis sono al centro del mirino dei falchi tiratori-detrattori che li accusano dei peccati elencati in precedenza. Ma guardiamole queste copertine che evolvono velocemente verso una sorta di neo-realismo magico. All’esordio (1969) usano un blocco nero come un manifesto mortuario; Trespass (1970) mette in scena un momento idilliaco e regale sfregiato da un taglio che attraversa l’intera illustrazione come a dire che la realtà è lì dietro l’angolo pronta a fare macerie; Nursery Cryme gronda sangue e incubi gotici; Foxtrot stipa figure più da inquietante Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch che dell’allegro mondo del Cappellaio matto simbolo della etichetta discografica della band, la Charisma. Selling England By The Pound svolta, poiché la figura al centro della copertina, ambigua, in una Inghilterra problematica e in svendita, potrebbe essere un senzatetto sul suo abituale giaciglio. Col capitolo successivo, The Lamb Lies Down On Broadway, si mette un freno ai colori e alle illustrazioni che sancisce la fine di una epoca: bianco e nero, foto, come mai successo in precedenza; un trittico (fotografico) come è in realtà Il giardino delle delizie del già citato pittore olandese. Tormentoso e tormentato

Gabriel, autore della maggior parte dei testi, è un ragazzo colto, curioso, dotato di intelligenza e sensibilità. Intelligenza non significa risolvere le equazioni di secondo grado, ma sapere elaborare le informazioni in modo creativo. Sensibilità, cogliere la realtà che ti circonda. Reinterpretarla inserendo elementi simbolici (The Lamb Lies Down On Broadway), oppure surreali, ancora da SF sociologica (Get ‘em Out By Friday), per farne una narrazione avvincente, popolare, ma con un sottotesto: micro-commedie al vetriolo (Harold The Barrel), se non un vero e proprio pungolo di più ampio respiro sociale, cosa che in Selling England By The Pound appare e scompare, carsicamente, lungo tutto il disco.

Gabriel è un fine inventore, non è un cronachista. Consideriamo dunque leciti The Musical Box, The Return Of The Giant Hogweed, The Fountain Of Salmacis, Supper’s Ready e tanto altro, ricolmi di creature di fantasia, punteggiati di riferimenti biblici, mitologici, fantascientifici, ma il cantante ha i piedi ben saldi nei tempi che vive, che non sfuggono alla sua lente indagatrice. Appunti che entrano nel suo taccuino come note, tratteggiati come schizzi, ma escono alla stregua di vignette caustiche, scene grottesche (The Battle Of Epping Forest), ma anche traboccanti pietas (For Absent Friends). Bozzetti realistici sceneggiati con piglio teatrale. Musicati in maniera barocca, prodiga di ceselli, talvolta ridondante, questo sì: ma Il giudizio universale di Michelangelo, che schiaccia a terra con la sua immanenza l’umanità civile che si mette in viaggio per ammirarlo, è il prontuario del minimalismo o il trionfo dell’eccesso? È solo The Pictorial Show o insuperabile abilità che fonde magistralmente simbologia, storia, religione e quant’altro?

Ma lasciamo da parte la musica (dei Genesis), torniamo al nocciolo della questione, al significato: nei racconti di Gabriel e compagni (come vedremo, non ha scritto tutto lui), che possono essere tanto farseschi quanto drammatici, ironici o sentimentali, dove trovano casa (anche) figure tratte dall’Inghilterra della recessione e della crisi energetica (quella del 1973 di Selling England By The Pound), o dalla New York (di The Lamb Lies Down On Broadway) tesa come una giungla d’asfalto. Dove la speculazione edilizia da una parte e le gang dall’altra hanno fatto sloggiare una volta per tutte gnomi e fate (pur riconoscendo alla modernità figure della mitologia, simboliche ed eterne, nonché di valenza storico-culturale). Ché probabilmente non potevano permettersi affitti andati alle stelle o non pagavano più il pizzo.

E allora ecco, a dimostrazione dell’apertura mentale della band, al contrario degli emissari della Santa Inquisizione rock desiderosi di mandare al rogo tutto il prog senza distinzioni, ecco dieci brani – tratti da tutti e cinque i dischi dell’indimenticabile serie d’oro pubblicata tra 1970 e il 1974 – che testimoniano come i Genesis non avessero solo la testa tra le nuvole, in compagnia del Watcher Of The Skies, ma occhi e orecchie aperti su ciò che succedeva tanto loro intorno quanto intorno e dentro la più aliena creatura che si aggira sulla Terra: l’essere umano.

Dopo il timido esordio di From Genesis To Revelation, nel giro di pochi mesi, come toccati dalla… bacchetta magica della fata azzurrina, ma soprattutto liberi dalla pesante ingerenza del produttore Jonathan King, Peter Gabriel (voce), Tony Banks (tastiere), Mike Rutherford (basso e chitarre), Anthony Phillips (chitarre) e John Mayhew (batteria), allestiscono il loro primo show sonoro tridimensionale. Ci sono altezza, lunghezza, profondità. E tanta luce soffusa che traspare gentilmente sin dalla copertina. Non manca però l’abbrivio. The Knife lo è su tutti, spostando l’equilibrio della sostanza di Trespass (1970). Il brano viene aggiunto per ultimo, come a suggerire un ponte già teso verso la barocca elettricità di Nursery Cryme, e come succede in copertina è una lama che squarcia con prepotenza (per l’argomento) l’atmosfera mediamente mansueta del disco.

Peter Gabriel: «I testi di The Knife erano in parte me, studente della scuola pubblica in rivolta verso il sistema educativo. Ero stato fortemente influenzato da un libro su Gandhi letto a scuola, e penso che sia stato importante per la decisione di diventare vegetariano e credere nella non-violenza come forma di protesta. Volevo provare a dimostrare come tutte le rivoluzioni violente portino inevitabilmente un dittatore al potere». Un brano dall’atmosfera talmente parossistica, soprattutto dal vivo, che alla fine di un concerto del 1971 Gabriel si lancia dal palco, come farà da solista nel corso degli anni ’80 con meno irruenza e un pubblico più preparato a proteggerlo, fratturandosi una caviglia.

A metà brano circa i Genesis ricreano l’effetto della folla inferocita che lancia l’assalto, in procinto di un probabile scontro frontale. Circola voce su Internet che la band si riferisse a quanto accaduto il 4 maggio 1970 alla Kent University di Kent, Ohio, quando le forze militari aprirono il fuoco sui ragazzi del campus che manifestavano contro la guerra in Vietnam, provocando quattro vittime. Questo per effetto dell’articolo di “Tin Soldiees And Nixon Comin”: Musical Framing and Kent State di tale Hayden Dingman, che viene citato da Wikipedia ai quali tutti attingono come fosse la voce dell’oracolo, non considerando che è una fonte aperta al contributo di chiunque. Con tutto ciò, autogoal compresi, che questo comporta. Ma restiamo sul pezzo: sono molte le canzoni che hanno narrato il tragico evento, Ohio di Crosby Stills Nash & Young su tutte, ma i Genesis non hanno contribuito. Non esiste alcuna dichiarazione dei membri della band. Ma la smentita più convincente arriva proprio dal sito della Kent State University, dove una pagina intitolata Music Related To The Kent State Shootings, aggiornata al 2022, elenca tutte performance sonore dedicate alla sparatoria. Nessuna traccia dei Genesis.

Dal vivo il brano è stato a lungo il bis per eccellenza. Ma è curioso vedere come sia diventato anche l’encore che ha messo fine all’unica reunion – Six Of The Best, la ‘reunion per un giorno’ del 2 ottobre 1982 allestita in fretta per aiutare Gabriel a recuperare il denaro perduto organizzando WOMAD – e a tutte le agognate speranze covate dai fan di vecchia data fino all’ultimo respiro (di vita della band). Col senno di poi, una sorta di coltellata alla schiena delle illusioni.

Eros e Thanatos. Elementi imprescindibili dell’esistenza. La vita senza l’amore non si rinnova; la morte ne è l’oscura gemella siamese. In musica si tratta di un accostamento audace: nel rock che celebra soprattutto il godimento e lo stordimento dei sensi, ci se lo aspetta dai belli e maledetti à la Velvet Underground, Doors, et similia. Ma per un gruppo di giovani da poco usciti dalla scuola privata, soggetti a un programma educativo rigido e repressivo delle emozioni, è del tutto impensabile. Gabriel, l’alchimista, nella provetta di The Musical Box mette estratti dell’immaginazione di Mary Shelley, di Allan Poe, e aggiunge gocce di erotismo surrettizio al limite del fuori gioco. Ne fa un allestimento da teatro del fantastico virato al gotico arcano, con l’occhio di bue puntato in modo compiaciuto sulla perversione che non fa distinzioni tra questo e l’altro mondo.

La storia viene presentata all’interno dalla confezione gatefold di Nursery Cryme con queste parole: «Mentre il piccolo Henry Hamilton-Smythe (8 anni) giocava a croquet con Cynthia Jane De Blaise-William (9 anni), Cynthia dal dolce sorriso sollevò in alto la sua mazza ed elegantemente decapitò Henry. Due settimane dopo, nella cameretta di Henry, lei scoprì il suo prezioso carillon. Bramosamente lo aprì e mentre le note di “Old King Cole” iniziarono a suonare, apparve una piccola figura di spirito. Henry era tornato… ma non per molto, perché non appena entrò nella stanza il suo corpo iniziò rapidamente ad invecchiare, restando al suo interno la mente di un bambino. I desideri di una vita lo pervasero. Purtroppo il tentativo di convincere Cynthia Jane ad appagare la sua brama romantica spinse la sua balia ad entrare nella cameretta per scoprire cosa fosse quel rumore. Istintivamente la tata scagliò il carillon contro il bambino barbuto, distruggendo entrambi». Un bambino barbuto, uno spirito che brama (tutt’altro che romanticherie ma) soddisfazione carnale, il piccolo Henry decapitato con lo strumento simbolo della leziosità della classe agiata inglese. Se vi sembra favolistico, è molto probabile che le favole della buonanotte ve le leggesse Leatherface.

In un alternarsi di chiaroscuri da brivido (anche di terrore), musicalmente “il carillon” genesisiano è movimentato quanto le parole cantate. Dopo uno studiato protrarsi che accumula tensione, il finale esasperato – la chitarra di Steve Hackett a imbastire sulla scia del diabolico violino di Niccolò Paganini, la band in stordente pieno orchestrale, Gabriel posseduto dallo spirito del povero Henry – è una sorta di orgasmo orrifico.

Se Nursery Cryme fosse un sistema planetario, For Absent Friends sarebbe una satellite tra i pianeti giganti The Musical Box e The Return Of The Giant Hogweed. Che a differenza della nostrana Luna vive però di luce propria. La canzone scritta e che vede protagonisti Steve Hackett e Phil Collins da poco entrati nella band in sostituzione di Anthony Phillips bloccato dallo stage fright e John Mayhew praticamente accompagnato all’uscita, è il peccato originale che ha dato adito alla infondata diceria – sulla quale ha calcato in modo particolare la critica italiana – che la voce del frontman della terza fase dei Genesis, Collins appunto, fosse così simile a quella di Gabriel al punto di confondersi. I pennaioli distratti non avevano notato non solo che il piccoletto di Chiswick sosteneva cori e seconde voci, ma anche che proprio a partire da questo haiku in note compresso tra i due mastodonti che occupano l’intero primo lato del terzo disco della band, il batterista che avrebbe espresso più utilizzi di un coltellino svizzero (attore, produttore, scrittore…) si presenta al mondo come cantante solista. Anche For Absent Friends parla di morte. In questo caso con assoluta pacatezza, e in termini di acquarello nostalgico echeggiato dalle chitarre in arpeggio e dalla voce (più alta) di un Collins che canta non solo con padronanza, ma calandosi con partecipata dolcezza nella parte.

I protagonisti sono due anziane donne sopravvissute ai compagni. Si trovano nel pomeriggio a chiacchierare del passato, perdono la cognizione del tempo e si attardano per la funzione in ricordo dei cari. «Domenica alle sei quando chiudono entrambi i cancelli / Un paio di vedove ancora sedute lì / Si chiedono se sono in ritardo per andare in chiesa / E fa freddo perciò si abbottonano le giacche / E attraversano il prato, sono sempre le ultime». Si affrettano, giungono alla preghiera, corrono ancora poiché in ritardo per prendere l’autobus che le ricondurrà a casa («sono sempre le ultime»). «Davanti al passaggio ad arco / Il prete le saluta con un cenno del capo / Lui è vicino a Dio / Ripensando ai giorni in cui in cui erano in quattro invece di due / Gli anni sembrano così pochi / Le teste chine in preghiera per compagni che non sono più lì».

I Genesis non sono solo autori di tele che tolgono il respiro per la grandiosità o per la quantità dei dettagli nei quali rischiate di perdervi come dentro un labirinto, ma con pochi tocchi e sensibilità in abbondanza sanno tessere malie trasparenti e leggere quanto una ragnatela. E come una ragnatela, una volta che vi avranno prese, non vi lasceranno più andare.

Torniamo a Trespass. Oltre al motivo per il quale si trova all’interno di questa lista, White Mountain ha una peculiarità unica: è il primo brano del repertorio Genesis che diventa cover. E lo fa in Italia. Di tanto in tanto succede qualcosa di imprevedibile e fuori controllo che non ha esito disgraziato anche tra i nostri confini. Nel 1972 esce su etichetta Ariston Un gioco senza età di Ornella Vanoni. La cantante reinterpreta, tra i dieci brani, titoli popolarissimi come Bridge Over Troubled Water di Simon & Garfunkel, First of May dei Bee Gees, addirittura Imagine di John Lennon. Ma il primo, quello che apre il disco e lo intitola, è la cover di White Mountain, con il testo italiano scritto (e non tradotto) da Claudio Rocchi, uno dei cantautori più originali del nostrano panorama musicale anni Settanta. Mi sono chiesto cosa abbia spinto la Vanoni, all’apice della carriera (l’album arrivò al n° 4 delle classifiche) a concedere primaria attenzione a un brano tutt’altro che orecchiabile, tratto da un disco che aveva venduto poche centinaia di copie. La risposta, parziale – lo ringrazio comunque – l’ho ottenuta da Vito Vita, profondo conoscitore delle cose musicali di casa nostra: «Vanoni incideva per la Ariston all’epoca. Quando incideva cover lo faceva con brani che erano rappresentati in Italia dalle edizioni musicali Ariston, o meglio dal gruppo editoriale Ariston: Alfredo Rossi aveva riunito alcune edizioni musicali in un unico gruppo. Anche i brani dei Genesis del periodo erano in Italia rappresentati dal gruppo».

Nella versione di Ornella Vanoni gli unici punti in comune con l’originale sono gli accenni ai “re” e a un “cane”, ed è stata trasformata in una canzone d’amore; White Mountain invece – i testi sono di Tony Banks – è una rielaborazione della letture giovanili del tastierista. I protagonisti della storia sono Fang e One-eye, due lupi: il primo ha rubato la corona dei re, il secondo a capo del branco deve ripristinare la legge e lo punirà con la morte. Fang si riferisce chiaramente a White Fang (pubblicato negli USA nel 1906) dello scrittore statunitense Jack London, uno massimi letterati del ‘900. Quello che da noi è stato tradotto come Zanna bianca, noto anche per le infinite trasposizione cinematografiche. White Mountain, se volete cavillare, sta a metà del guado fantasy/no: ma dato che i risvolti fantastici non sono troppo vischiosi, né rischiosi, credo che si possa considerare sufficientemente ancorato al suolo da fare legittimamente parte della presente parata. In fin dei conti sui lupi, così come su tante altre forme di vita animale, sappiamo così poco che ipotizzare una storia come quella di White Fang – al di là della corona – non risulta così folle.

Sul finire del brano, prima di un coro che sa di Armata Rossa in ricordo dell’assedio vittorioso ma tragico di Stalingrado, prende vita quasi dal nulla, come disgiunto dal resto del brano, uno dei momenti più sereni dell’intera storia del rock. Una melodia fischiettata – da John Anthony, il produttore – si intreccia all’organo che sembra allontanarsi e avvicinarsi ripetutamente all’ascoltatore come in balia dei capricci del vento: un delicatissimo confronto che ha l’irraggiungibile eleganza di due farfalle impegnate nella danza del corteggiamento. Secondi che valgono un’eternità.

Si può affermare senza pericolo di smentita che non c’è brano dell’epoca Gabriel che si trovi sui cinque dischi pubblicati tra il ’70 e il ‘74 che non meriti di stare dov’è. Ciononostante, che Twilight Alehouse sia finito tra i panchinari del 45 giri lascia l’amaro in bocca. Va anche detto che l’output dei singoli dei Genesis è davvero esiguo, ma allo stesso tempo di tale qualità, che si può parlare di “panchina lunga”, che nel gergo calcistico odierno significa avere come cambi dei “secondi titolari” invece che vere riserve. Calciatori che non sono in campo solo perché si gioca in 11. Così come Twilight Alehouse non ha trovato posto sull’LP semplicemente perché lo spazio sul vinile era esaurito.

Registrato durante le session di Foxtrot, ma stipato sul retro del singolo I Know What I Like (In Your Wardrobe) del 1973 (circolò anche come flexi allegato alla rivista inglese Zigzag e non solo), il brano era eseguito dal vivo già nel 1970, e ha origine più indietro nel tempo, dato che secondo l’imperdibile box set Archive 1967-75 si tratta di una composizione collettiva che comprende tra gli autori anche Anthony Phillips. Non solo: ascoltate il frammento musicale che separa Fireside Song da The Serpent, sul disco di esordio del 1969: è la base su cui è stata innalzata Twilight Alehouse, nessun dubbio. La alehouse è la birreria. Con “Birreria al crepuscolo”, il titolo dà immediatamente l’idea che non ci troviamo al cospetto di una delle canzoni più allegre dei Genesis. In realtà ascoltiamo forse la storia più infelice dell’intera epoca Gabriel, quella di una persona che abbattuta dalle avversità della vita trova conforto nell’alcool.

La prima strofa è meditabonda, il protagonista perso nel presente dubbioso. «Quando mi incammino verso casa non c’è nessuno / Una volta c’era una casa piena di risate – così calda / Cerco di far finta che ci sia qualcuno / Qualcuno che si prenderà cura di me quando ne ho bisogno». Il ritornello che aumenta di giri, e strattona l’ascoltatore, spalanca le porte sulla realtà dalla quale è difficile sollevarsi. «Troverò consolazione, apparsa per merito del magico potere del vino / Solo un bicchiere, avrò quel bicchiere, e mi sentirò bene / (…) / solo un bicchiere per il mio dolore / (…) Solo un bicchiere per farmi sentire ancora un uomo / Ora sono depresso». I “bambini” dalla risata isterica della seconda strofa mettono i brividi. L’ “amica dipinta” probabilmente l’immagine che si trova sulla tomba della donna morta. «Quando mi aggiro fuori non c’è posto / I bambini mi seguono, con la loro risata così fredda / Lancio uno sguardo al cimitero / Lancio una occhiata alla mia amica dipinta». Sull’ultima strofa si impone il tragico sentore di non riuscire a sollevarsi, o peggio di cercare sollievo in una fine prematura. «Sto arrivando, sto cadendo / Devo trovare aiuto, ne ho bisogno ora».

Nel corposo congedo strumentale, uno dei cavalli di battaglia dei Genesis, sono riassunti in note i sentimenti che trasmettono le parole. La parte al flauto di Gabriel sottende lo struggente ricordo della compagna perduta, la batteria tumultuosa la furia del fato impietoso dal quale non c’è riparo, il vorticante organo – malfermo come l’ebbro narratore – lo sprofondare nell’inferno del bere.

Romeo and Juliet. William Shakespeare, chi altri? E Peter Gabriel, che ricorrendo al bardo mette la ciliegina sulla torta dei testi. Già, perché l’impasto di parole l’hanno amalgamato e messo in forno, strano a dirlo, Tony Banks e Mike Rutherford (ispirati da una poesia di T.S. Eliott, The Wasteland). Ma si intuisce. Gabriel è un funambolo del verbo, sbocconcella giochi di parole uno dietro l’altro: basti pensare a Dancing With The Moonlit Knight o The Battle Of Epping Forest, giusto per restare confinati a Selling England By The Pound. Mentre il testo di Cinema Show fruscia di poesia, la migliore, quella che arriva a tutti: è breve innanzitutto, estremamente romantico, semplice e diretto. Con poche metafore efficaci ma ricercate colpisce dritto al cuore, tocca l’anima, non può non diventare boster di fantasticherie per sentimentali. È la storia di due ragazzi che Gabriel battezza Romeo e Juliet, di modesta estrazione sociale, che combinano un appuntamento al cinema. La storia dei due amanti si esaurisce, in modo anomalo per le leggi della canzone, nelle prime due strofe.

Tornata dal lavoro Juliet «si cosparge la pelle di invitanti profumi / nascondendosi per attrarre / Rifarò il letto disse, ma si voltò per andare / Può fare tardi per il cinema?». Romeo chiude a chiave il seminterrato e in ghingheri, con una cravatta dal motivo floreale, percorre di corsa le scale. «Un milionario da fine settimana / “Rifarò il letto con lei stasera” grida” / Può fallire armato della sua sorpresa al cioccolato?». Gli autori hanno sottolineato la differenza tra la donna (romantica) e l’uomo (predatore): lei lascia il giaciglio disfatto per correre all’appuntamento, lui – architetta – disferà il letto infilandosi con lei tra le lenzuola. Dopodiché il ritornello apre una porta sul passato remoto, mettendo Tiresia, secondo la mitologia greca unico essere umano ad avere vissuto sia come uomo sia come donna, sulla scia di Romeo e Juliet. Per tale peculiarità Tiresia sarà chiamato a risolvere la disputa tra Giove e la vendicativa Era, che lo renderà cieco, su chi provi maggiore piacere fisico tra i due sessi nel fare l’amore. Giove per consolarlo della cecità gli regalerà il dono della divinazione, mentre Banks e Rutherford lo celebrano con parole che suggellano poeticamente il concetto iniziale della differenza tra uomo e donna negli affari di cuore. «Torna indietro nel tempo con padre Tiresia / Ascolta il vecchio che racconta di tutto quello che ha vissuto / Sono stato ovunque, per me non c’è mistero / Quando ero uomo come il mare mi infuriavo / Quando ero donna come la terra donavo / In realtà c’è più terra che mare». In realtà c’è più terra che mare. La donna, con la sua generosità, prevale sull’arroganza dell’uomo. I Genesis fanno ancora ricorso alla mitologia, vero. Ma si tratta solo di una metafora per ammantare di fascino ultraterreno un episodio di seduzione quanto mai quotidiano.

Alla fine del cantato, che si esaurisce in meno di un terzo della durata dell’intero brano, decolla un lungo strumentale, appannaggio in gran parte di Tony Banks, che fa di Cinema Show non solo uno dei titoli preferiti dai fan dei Genesis, ma anche uno dei titoli simbolo dell’intero prog rock. Al cospetto di una prova strumentale così ben riuscita, è quasi ovvio che le parole di Cinema Show sono considerate per lo più – un vero delitto – come di contorno.

È la prova più verbosa di Gabriel in una singola canzone. Un vero tour de force: della parola cantata, piegata, piagata, accentata, accentratrice, per dare vita a un intero mondo, vibrante e frequentato da personaggi da antologia, da dietro il microfono. Una faccenda tutt’altro che semplice. Un brano che divide tanto la band quanto i fan: chi la considera mal riuscita, chi al contrario – io sono tra questi – uno dei massimi picchi creativi ed esecutivi della band. Un gioco ad incastri, tra la miriade di blocchi sonori e il testo, che vive di equilibri infinitesimali eppure funziona come un orologio di precisione.

Il pezzo di terra a bosco denominato Epping Forest fu terreno di caccia per Enrico VIII, lugubre teatro per impiccagioni di presunte streghe il secolo dopo, per divenire nel 1700 il nascondiglio del bandito Dick Turpin, un tagliagole che la letteratura popolare ha trasformato in eroe (al punto che la BBC ne ha tratto una serie da 31 episodi). Nel 1800 il lembo di terra le cui propaggini arrivano alla capitale fu luogo di scontri tra la popolazione e la autorità per l’aumento delle tasse e l’introduzione di limitazioni agricole. Fino a quando, nell’aprile del 1972, fu individuato da due gang rivali londinesi come sorta di ring a cielo aperto per stabilire chi dovesse avere il controllo sul East End metropolitano.

Gabriel prese spunto da un articolo sul Times che raccontava la serie di arresti che Scotland Yard aveva effettuato nei giorni seguenti alla mischia, e le perquisizioni nelle case dei malviventi trovate piene di armi – che andavano dai coltelli ai fucili. Il frontman dei Genesis racconta la tenzone con piglio epico-grottesco, una battaglia, appunto, tra malviventi con una sorta di codice etico, secondo il quale valevano quelle armi che non avrebbero lasciato a terra dei morti: «There’s no guns in this gentleman’s bout», canta Gabriel. E forse è andata proprio così. Nella realtà. Gabriel passa in rassegna una pletora di personaggi degni del miglior Dickens, per di più filtrati come suo costume attraverso la lente distorsiva e dissacratoria tipica dei Monty Python, fornendo un voce diversa per ognuno e sciorinando pun come fosse una serie di scioglilingua. Meglio del vaudeville.

Willy Wright e i suoi ragazzi «che fanno un rumore d’inferno», i teppisti di Little John, i Barking Slugs (Lumaconi abbaianti), Liquid Len «sto spezzando le gambe al bastardo che mi ha incastrato», Georgie che «si muove esternamente a sinistra / con una catena che vola sopra la sua testa», the Reverend «entrato in chiesa senza macchia / I miei datori di lavoro sono cambiati, ma il nome è rimasto», Bob the Nob, il macellaio di Bethnal Green, Mick The Prick, sono solo alcuni. «È la battaglia della Foresta di Epping / Proprio fuori dalla tua porta / Non hai visto niente di tutto ciò / No, non hai visto niente di tutto ciò / Non dopo la Guerra Civile», insiste il ritornello. Ma qualcosa deve essere andato storto. Quando il mattino dopo tornano sul campo le limousine, i boss, che di certo non si sono sporcati le mani, trovano a terra una parata di cadaveri. «Non è rimasto vivo nessuno, dev’essere un pareggio». Allora tirano in aria una monetina per stabilire il vincitore.

Il lancio della monetina divenne popolare per l’uso fatto nel calcio. In pochi ricordano che la nazionale italiana vincitrice dei campionati Europei del 1968 superò l’allora URSS in semifinale proprio grazie al lancio della fatidica moneta che ci fu favorevole. Poi dicono che la fortuna non conta.

«Buttali fuori entro venerdì / Non sarai pagato finché l’ultimo non se ne sarà andato».

Il quarto disco di studio dei Genesis contiene Supper’s Ready, una Stella Gigante che oscura tutto ciò che è nei paraggi. Ma Foxtrot è tanto, davvero tanto, altro. Per esempio Watcher Of The Skies, la cui eccellenza tutti riconoscono; per esempio Can Utility And The Coastliners, che invece non ha ottenuto l’attenzione che merita; per esempio la straordinaria Get ‘em Out By Friday. Se Banks e Rutherford – sempre a fare comunella quei due, fino a portare i Genesis al tracollo (artistico) negli anni ’80 e oltre – hanno firmato il testo del fantascientifico “osservatore dei cieli”, Gabriel risponde con gli stilemi della fantascienza da par suo, in modo più sottile e ricercato rispetto ai sodali. Provocatorio e critico verso quell’Inghilterra su cui punterà il mirino con un più marcato intento accusatorio nel disco seguente. È fantascienza sociologica (per capirci, un titolo per tutti: Farhenheit 451), poi sfociata nella New Wave dei primi anni ’60 (sì, c’è stata una New Wave prima nella SF che nel rock). Per dirla in breve, quel genere di letteratura che pur essendo in piena salute si evolveva, si faceva adulta e diversificava rispetto alla facciata più disinvolta, quella della Space Opera, dei mostri, delle invasioni da parte di forme di vita aliene.

Gabriel non guarda al cielo, dunque, ma da bastian contrario gira il telescopio verso terra e oltre, il sottoterra, le fondamenta (degli edifici): la speculazione edilizia. Inventa il Genetic Control, ente governativo che nel 2012 avverte la nazione del varo di un nuovo piano che risolverà il problema della penuria di abitazioni: «È mio triste dovere informarvi di una restrizione di quattro piedi / Sull’altezza umanoide». Gente più piccola, dentro un appartamento ce ne sta di più. Poi, come spesso accade la realtà ha superato la fantasia, o per lo meno si è messa al passo. Quando dagli anni ’80 hanno rimpicciolito gli appartamenti, che si moltiplicano per la stessa cubatura. Adatti per famiglie rimpicciolite: i cosiddetti “single”. Non c’è bisogno di controllo genetico: basta quello psicologico, alleato a una martellante campagna di marketing.

Questo lo sfondo. Il futuro che ci aspetta(va). La canzone inizia però al presente: Mark Hall detto The Winkler, il buttafuori, fa pressione su Mrs. Barrow e marito per liberare l’appartamento che abitano, così come sta facendo con gli altri inquilini: «Rappresento una ditta di signori che di recente ha acquistato questa casa / E tutte le altre nella strada / Nell’interesse dell’umanità abbiamo trovato un posto migliore per voi / In cui andare». The Winkler agisce per conto di John Peeble della Styx Enterprises: «Penso che abbiamo fissato un nuovo accordo / Una dozzina di proprietà / Compreremo a cinque e venderemo a trentaquattro». Ma non c’è tempo per i patteggiamenti. Dopo il primo avvertimento, è contemplato passare alle maniere forti. «Buttali fuori entro venerdì / Te l’ho detto prima, non vedremo molti soldi se li lasciamo stare / E se non è facile / Puoi torchiare un po’ e i nostri problemi andranno via al più presto».

Dispiace doversi ripetere, ma Get ‘em Out By Friday è uno dei più alti vertici verbali, vocali & immaginativi di Gabriel, che interpretando con voci diverse tutti i personaggi, e grazie all’adeguato sostegno della band che esegue partiture da soundtrack, appronta una storia che è una sorta di sceneggiatura pronta da portare a teatro o addirittura del cinema (pensate la storia messa nelle mani di Terry Gilliam, e al suo Brazil). La canzone è comunque sfuggita al confinamento su vinile. Non è rimasto insensibile al suo fascino visionario il fumettista francese Jean Solé (con la partecipazione del più noto Gotlib), che nel 1976 ne fece un adattamento illustrato per il n° 8 della rivista di comic Fluide Glacial, tutt’ora esistente.

Una sorta di prova generale in attesa del kolossal The Battle Of Epping Forest. La trama imbastita su molteplici personaggi, voci e punti di vista, solo su scala minore. L’ennesimo pezzo di bravura ed eclettismo di Gabriel che fa il Brachetti, necessariamente vocale oltre i costumi, del prog. Una farsa dai tratti dickensiani che si trasforma in dramma, puntando il dito sulla ipocrisia dell’organizzazione sociale britannica (sarebbe più giusto dire globale). Ci sono Harold, «noto ristoratore di Bognor», disilluso, confuso, scappato di casa; l’uomo della strada e il suo disprezzo per chi esce dal gregge: «Padre di tre figli, è disgustoso / Una cosa orribile da fare»; l’ipocrisia del Signor Sindaco: «Uomo del sospetto, non puoi durare a lungo, l’opinione pubblica britannica è dalla nostra parte»; il pubblico desideroso di scandali su ampia scala: «Non puoi durare a lungo / Dicevano che non ci si poteva fidare di lui, suo fratello era uguale». Ma anche Mr. Plod, una sorta di negoziatore, e la madre 67enne di Harold molto preoccupata (delle apparenze): «La tua camicia è tutta sporca e c’è qui un uomo della B.B.C.». Non manca il “narratore, che ci mette al corrente che Harold è salito sul davanzale di una finestra in alto, quando pensava che «Se fossi a molte miglia da qui starei navigando in una barca aperta sul mare».

Ricordate L’asso nella manica, il capolavoro di Billy Wilder del 1951? (se non lo ricordate, stasera cercatelo e preparatevi a sgranare di occhi di fronte al genio vero invece che popcorn). Siamo su quelle frequenze: solo, mentre il film è tragicamente spietato, Gabriel abbonda in sarcasmo e causticità, strappa sorrisi a denti stretti, amarissimi. Le istituzioni, i notiziari, la gente comune, il grande pubblico, perfino la madre, sono tutti interessati allo show, nessuno alla vittima e alle sue ragioni. Alla fine, inevitabilmente, Harold salterà. La canzone, compressa al contrario di The Battle Of Epping Forest in nemmeno 3 minuti: altra magia, si conclude con la voce di Harold che precipitando, in un misto di disincanto, senso di sconfitta e ineluttabilità, si perde in lontananza. Probabilmente cantata da Phil Collins. Allo stesso tempo una vignetta di brillantissima vivacità, una miniatura dettagliata, un lampo tragicomico. Ma soprattutto il partecipato sguardo sullo stato di salute di una società cinica e spregiudicata, che in fin dei conti abbonda di tante divinità (i potenti), eroi (i vip, i personaggi popolari) e vittime (i cittadini schiacciati dalle distorsioni e contraddizioni di istituzioni sensibili ai numeri ma sorde alle voci disperate dei singoli) quante ce ne sono nelle fantasiose peripezie della mitologia greca dalla quale Gabriel, questa volta, non sente né ha bisogno di attingere.

«The Lamb trattava di esperienze psichedeliche, di ricerca dell’illuminazione spirituale e di temi come l’alienazione, la repressione, il rifiuto e il loro superamento attraverso la saggezza e l’esperienza». È Peter Gabriel a parlare. Il sesto e ultimo album di studio per il cantante con i Genesis è quanto dichiarato da egli stesso ma anche molto di più. Un disco che ancora genera fiumi di inchiostro (o l’equivalente digitale), teorie, discussioni, guadagnando sempre nuovi ammiratori. Un lavoro che su quattro facciate offre una varietà sonora e testuale ampissima, ma se si deve scegliere un brano che rappresenti “l’alienazione, la repressione, il rifiuto”, nel posizionare la puntina su Back In N.Y.C. non si sbaglia. Con altrettanta certezza si può dire che si tratta del brano più duro dei Genesis in assoluto.

Al centro della storia di The Lamb Lies Down On Broadway c’è Rael, un teppista portoricano che intraprende un lungo viaggio di formazione / redenzione costellato da innumerevoli vicissitudini; una odissea che si dipana tra il tangibile e l’onirico, il visionario e il mitologico, con continue fughe dalla realtà e rocamboleschi ritorni. La definizione più bella l’ha data Jon Michaud, giornalista del The New Yorker, che in relazione al profluvio di parole e alla sua a tratti inestricabile cripticità l’ha descritto come l’Ulisse (James Joyce) dei concept album. In Back In N.Y.C. Rael è a casa sua, i vicoli tenebrosi di New York. È un paria, è uscito dal riformatorio di Pontiac a diciassette anni, è molto arrabbiato. Canta in prima persona: “Quindi pensi che io sia un ragazzo duro? È questo che hai sentito? / Beh, mi piace vedere l’azione e mi entra nel sangue / Mi chiamano l’apripista, Rael rasoio elettrico / Io sono il lanciatore della banda della catena, non crediamo nel dolore».

È il 1974. Avete mai sentito parole più violente uscire da un disco rock? Sputate con tale cattiveria? Gabriel è in fase di trasformazione: l’anno prima cantava il facile ritornello del tagliaerba (I Know What I Like), fra un anno si chiuderà la porta dei Genesis alle spalle con una valigia piena di dubbi; ma qui, ora, è talmente convincente nella incontenibile furia di Rael da mettere paura.

«Non potete comprare protezione dal modo in cui mi sento / I vostri ipocriti progressisti distribuiscono la loro spazzatura / ma prima era mia, quindi la ridurrò in cenere». In un clima sonoro claustrofobico, martellante, insolitamente hard, i Genesis costruiscono attorno a Gabriel una gabbia di metallo che Rael entrerà per combattere, come in un incontro clandestino senza esclusione di colpi, contro tutti i suoi nemici (compreso sé stesso, come ha intuito). «Dici che devo essere pazzo perché non mi interessa chi colpisco / Ma so che sono io a colpire e non dico cazzate / Non mi interessa chi ho ferito, non mi interessa a chi ho fatto di male / Questo è il tuo casino in cui sono bloccato, non mi appartiene / Quando tiro fuori la mia bottiglia piena di benzina / Si vede dai fuochi notturni dove è stato Rael».

Se trovate un cantore della brutalità e della emarginazione che risulta più spigoloso del Rael di Back In N.Y.C., dalla nascita del rock’n’roll fino al 1974, vi pago da bere.

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